Val di Susa, ultima tappa

Storie di migranti al confine tra l’Italia e la Francia

Sono diciotto i chilometri da percorrere a piedi attraverso le Alpi Cozie se si vuole arrivare in Francia. È questo che viene detto ai migranti che partono con il treno a Torino e arrivano a Oulx, al Rifugio Fraternità Massi, in Alta Val di Susa. E insieme al numero dei chilometri le condizioni: il freddo e la neve prima di tutto. Un freddo che durante l’inverno è sempre presente, con temperature che raramente superano lo zero, anche nelle ore più calde. E che rende la traversata verso la Francia particolarmente difficile, soprattutto per le famiglie che arrivano con neonati o bambini piccoli e quasi sempre senza indumenti adatti a temperature rigide e neve alta.

Per chi vuole attraversare le montagne e arrivare in Francia i valichi praticabili sono due, quello del Monginevro e quello del Frejus. Sui due versanti alpini sono presenti due rifugi, il Massi su quello italiano, il Les Terrasses Solidaires a Briançon, sul versante francese. Entrambi sono spesso pieni oltre la capienza consentita e vengono raggiunti dai migranti grazie al passaparola.

Il passaparola è lo strumento fondamentale

Il passaparola, strumento di sopravvivenza base per chi cammina verso nuovi paesi e nuove vite, trasmette la conoscenza dell’esistenza del rifugio e la sua ubicazione ma raramente prepara al freddo. I migranti però sono a conoscenza del fatto che , quando arrivano, che c’è un posto in cui si può entrare gratuitamente e trovare cibo, una doccia, un letto e cure mediche, se necessarie. In realtà il rifugio è quasi allo stremo. Ormai unico centro di accoglienza della Valle, è spesso strapieno e si svuota appena solo quando a Bussoleno, poco più giù, viene utilizzato durante la notte uno spazio gestito dalla Croce Rossa. Tra i volontari che collaborano con il rifugio, alcuni hanno anche preso la decisione di ospitare nelle loro case migranti e famiglie di passaggio, rischiando di essere perseguibili per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale.

Oltre agli arrivi da Torino bisogna gestire i respingimenti, quei casi di persone che ogni giorno vengono bloccate al confine. Può capitare che siano respinte dalla gendarmeria francese in Francia o a Claviere, ultimo paese sul versante italiano del Colle del Monginevro, o a Bardonecchia quando vengono effettuati controlli sui FlixBus e sui treni per Modane. Prive di alternative le persone respinte tornano a Oulx, al Massi, per poi ritentare il cammino una seconda e terza volta, fino a riuscire. Oulx, d’altra parte, è un luogo di passaggio e transito, nessuno vuole fermarsi se non chi non ha idea di dove andare o chi raggiungere nel resto d’Europa.

Proprio per questa ragione il numero delle partenze dal rifugio è sempre più alto rispetto a quello degli arrivi. Oulx è infatti l’unico punto di passaggio alpino verso la Francia. È un rifugio, non una dimora, in cui il ritmo è a tratti molto frenetico, a tratti lentissimo. I migranti arrivano soprattutto durante il pomeriggio e poi la sera, con gli ultimi treni che partono dalla stazione centrale di Torino, Porta Nuova. I letti vengono occupati solitamente per una sola notte, il tempo di riposarsi e cibarsi prima di tentare l’inizio della traversata il mattino successivo. Nelle ore serali bisogna quindi accogliere tutti, gestire i posti letto e le camere, preparare un pasto caldo e smistare chi ha problemi di salute. C’è chi ha bisogno di andare al pronto soccorso, chi invece può semplicemente essere preso sotto le cure dei medici sempre presenti al rifugio. In ogni caso bisogna superare la diffidenza, la paura di essere denunciati o resi riconoscibili tramite foto o video. Oltre all’onnipresente barriera linguistica: il francese e l’inglese sono le lingue utilizzate, ma ci sono casi di chi non parla nessuna delle due.

Al mattino invece bisogna preparare tutti alla partenza. Scarponcini, giacconi da sci, sciarpe, guanti. Tutte cose di vitale importanza. Le persone partono in tarda mattinata, arrivano al confine con la Francia e poi tentano di attraversarlo di giorno e soprattutto di notte per evitare il più possibile i controlli alla frontiera.

La rotta balcanica

La strada che hanno percorso gli ospiti è lunga e ormai passa sempre più spesso attraverso i Balcani. Un cambiamento rispetto a qualche anno fa, visto che fino al 2019 si vedevano soprattutto migranti provenienti dalla rotta mediterranea. È un percorso tortuoso, che a volte richiede anni, fatto di molteplici tentativi di passaggio attraverso diverse linee di frontiera. Ed è anche un percorso doloroso, in molti casi scandito da violenze e abusi, in particolar modo sui minori e sulle donne. Le ferite restano visibili anche tra chi è al rifugio, ma inespresse. In molti non vogliono raccontare o non ricordano molto del loro arrivo in Italia, persino il tempo che ci è voluto per arrivare. È tutto nebuloso, confuso.

C’è chi arriva dall’Afghanistan o dall’Iran, molti sono curdi di varie nazionalità. Passano per la Turchia o per la Grecia a piedi o tentando la sorte sotto il telaio di un camion. Ma c’è anche chi arriva dall’Africa e ha transitato nei terribili lager della Libia per poi attraversare il mare fino all’Italia. Ci sono molte famiglie, molti minori non accompagnati, donne incinte e prossime al parto, persone anziane e tanti che si sono trovati lungo la strada e hanno deciso di proseguire insieme. Chi arriva dalla rotta balcanica e passa attraverso i rifugi di Trieste può poi attraversare le alpi solo qua o per la via costiera, a Ventimiglia.

Delle due rotte quella che passa per Oulx è probabilmente la più ardua per le estreme condizioni climatiche. È il paradosso della solidarietà in montagna. Perché se da una parte è pericoloso superare i limiti della legalità, rischiando il  favoreggiamento all’immigrazione clandestina, dall’altra l’essere testimoni di incidenti o condizioni di pericolo in montagna senza prestare aiuto potrebbe essere interpretato come omissione di soccorso. In fondo è quello che succede anche in mare. Il soccorso alpino e le operazioni di ricerca e soccorso sono infatti fondamentali in montagna, dove il tempo può cambiare repentinamente più volte al giorno, e vengono messe in atto senza distinzioni di sorta per chiunque ne abbia bisogno. Ma quando si parla di migranti la linea da non oltrepassare per evitare il reato è sottile e distinguibile solo tramite l’aiuto sempre presente dei rappresentanti legali a cui fa riferimento il rifugio Massi. Quanto si può e deve aiutare? Si possono dare tutti gli strumenti possibili per poter superare i chilometri innevati, mappe incluse. Ma non si può facilitare la traversata accompagnando i migranti su un mezzo di trasporto.

Gli incidenti capitano, se ne legge sui giornali e in tv. In Val di Susa se ne parla. I gruppi di migranti soccorsi con elicotteri o a piedi si susseguono durante l’inverno.

La frontiera uccide

D’altronde il rischio è reale: attraversare la frontiera può uccidere. È un evento che non capita sovente, per fortuna, ma capita. Come nel caso di Ullah Rezwan Sheyzad, afghano, 15 anni. Dopo aver attraversato l’Iran, la Turchia, la Bulgaria, la Serbia, la Croazia e la Slovenia era alla fine arrivato in Italia. Come per la maggior parte di chi passa per la Val di Susa, l’obbiettivo era il ricongiungimento familiare, nel suo caso con la sorella, a Parigi. Invece il 26 gennaio 2022, lungo le rotaie che collegano Oulx al paesino precedente, Salbertrand, viene ritrovato il suo corpo senza vita. I minori non accompagnati legalmente dovrebbero poter attraversare il confine e ricevere protezione umanitaria senza possibilità di respingimento. Eppure il passaparola riguardante le due polizie nazionali alla frontiera spinge molti minori a gesti estremi. Senza contare i casi, purtroppo non rari, di minori registrati come maggiorenni all’ingresso in Italia, che sia a Lampedusa o a Trieste. In questi casi sono gli stessi operatori a trovarsi di fronte all’ennesimo dilemma: spingere un minore registrato come adulto ad attraversare a piedi per paura di essere fermato, o tentare di attraversare in treno o in autobus, per poi consegnarsi alle autorità. Questo tipo di eventualità si presenta spesso, in realtà, ma ai minori spesso manca il tempo materiale per aspettare che i rappresentanti legali del rifugio trovino una soluzione. Le denunce di irregolarità nei processi di identificazione sono pochissime, i casi si conoscono per lo più perché rilevati dagli operatori del rifugio in momenti di confidenza. C’è poi un ultimo scenario: quello in cui il minore, pur di non separarsi dai compagni di viaggio, decide di non consegnarsi alla polizia di frontiera, ma di seguire insieme agli altri le vie più impervie.

Oltre a uccidere la frontiera spinge tutti alla fretta. Non solo i minori, ma donne incinte, persone invalide o malate, anziani. Sono spesso presenti persone evidentemente impossibilitate a terminare il lungo cammino dei 25 km montani, eppure convinte delle loro azioni. Si cerca di parlare, in questi casi. Di spiegare che sì, è un confine come tanti ne hanno già attraversati però quando la temperatura raggiunge i -15 gradi i pericoli sono maggiori. E oltre alla temperatura ci sono il ghiaccio, il vento gelido, la pioggia, la nebbia e il buio. Le pareti del rifugio sono tappezzate di mappe e avvisi sul freddo e la neve ad alta quota. Le mappe inquadrano i sentieri e i passaggi, bisogna spiegarle, esplorare i rischi, parlare della differenza di temperatura tra quando c’è il sole e quando cala il buio. Per evitarlo si ha il tempo contato, le ore disponibili sono cinque o sei, poi si è preda delle temperature sotto lo zero ed è importante saper riconoscere i segni dell’ipotermia, negli altri come su sé stessi.

La militarizzazione della frontiera

È quindi la paura ciò che spinge sulle strade più pericolose. La paura di essere fermati e mandati indietro, una paura che sembra essere fondata. La frontiera è sempre più controllata, con la presenza di militari tra i boschi, droni, rilevatori a raggi infrarossi, motoslitte.

Per cercare di evitare i controlli i migranti si affidano sempre più, oltre che alle rotte più pericolose, agli smugglers. Sono individui che per denaro promettono di poter aiutare a passare il confine evitando i controlli ma che spesso si limitano a derubare le persone che a loro si affidano. Sono sempre esistiti ma i racconti di chi è in cammino indicano una presenza in aumento, soprattutto a Torino, centro nevralgico da cui partire per la montagna, e a Salbertrand, nell’enorme centro di sosta autostradale utilizzato da automobilisti e camionisti. Da qui i migranti possono pagare uno smuggler o rischiare il tragitto sotto un camion.